Sant’ Antonio da Padova
Riprendo qui, allargando il campo, un discorso già accennato riguardo la fede, la lingua araba e sant’ Antonio.
Ad Haifa, strada facendo, un po’ tentato dallo scoraggiamento – mi riferisco allo studio dell’arabo – a volte dicevo: “Antonio, però non mi sembri molto operativo! Qui si fatica molto e si raccoglie poco. Ma, non ero venuto a chiederti la grazia? So che tu non sei uno che si tira indietro, anche se mi avevi fatto intendere che ben di più avrei dovuto chiedere: una “lingua da iniziati” come la tua per l’annuncio del vangelo; le tue omelie e catechesi incantavano tutti! Ancora se lo ricordano in tanti!”. Se quel benevolo rimprovero poteva essere letto come un suggerimento per la prossima volta che sarei venuto a trovarti, restava però la mia richiesta; quindi: non fai miracoli, oppure niente “miracoli di serie B”? o peggio: era solo un film? Mi domandavo se forse non avrei dovuto rivedere la mia fede, ancora un po’ confusa tra mistero e magia, forse, mi dicevo, non si chiedono queste cose ai santi, i santi non mettono il microchip in testa per superare gli esami o imparare le lingue, che era forse in qualche modo come ingenuamente immaginavo il miracolo della lingua.
Ma mi chiedevo pure: non erano persone semplici e forse anche ingenue, quelle che chiedevano i miracoli a Gesù, e ai santi?, Io allora non ero semplice? non aveva lui stesso detto: chiedete! Se aveste Fede…. allora io non avevo proprio Fede? Ero così a terra, così scarso? Eppure non mi sembrava! senza presunzione… questi ragionamenti e perplessità andarono avanti fino a quando non entrò in scena quello che ormai tutti conoscete, ma che fingiamo di non conoscere e tenere in incognito: P.P. fu così che con fedele, costante, feriali e festivi inclusi (!) con tecniche che a scuola oggi sarebbero forse vietate (ripetere, ripetere, ripetere) mi ha portato a celebrare questa benedetta messa in arabo per Natale. In tutta sincerità, pur con tutta la buona volontà, senza questo aiuto non ci sarei arrivato, e non per falsa modestia, ma perché oltre a farmi ripetere, ripetere, ripetere P.P. da buon allenatore, sportivo qual è, conosceva quali sono i pericoli di che si avventura in questa strada e quindi ad ogni mio scoraggiamento ripeteva: ma è normale! Cosa credi? Quante volte hai ripetuto? Due volte, tre volte! No, non due volte ma 200 volte! Era quindi normale, ero quindi normale, e se non un fuoriclasse, almeno ero normale! Almeno questo!
Ma lui, non si sarebbe stancato? sembrava pure che in quell’ esercizio snervante anche per ogni insegnante che vede l’alunno faticare, lui fosse a suo agio perfettemante. Niente paura, con calma, ripeti – e aggiunge: a me questo fa piacere! Possibile che provasse piacere? Ma che piacere era? Cosa poteva dargli piacere? Racconto questo solo per capire il tipo che era, ma non è di questo che vogliamo parlare, anche per non fare diventare il discorso un panegirico.
La questione riguarda ancora sant’ Antonio e riguarda i miracoli e la fede, perché, come dicevo, io pensavo bastasse la mia fede, il mio impegno, la mia passione, invece no, non bastava la mia fede, a me occorreva la carità di un altro. Il miracolo della fede accade, può accadere quando, come per il paralitico calato dal tetto nel vangelo, – è l’unico paragone che mi viene – opera la Carità e la fede di quei tali che si caricano il paralitico e, dopo aver scoperchiato il tetto di quella casa, lo calano dall’alto: così io ho imparato a celebrare messa in arabo. E miracolo fu! Perché a Natale, per l’esattezza per Santo Stefano, celebro la prima messa da presidente.
Fu così che dissi ad Antonio: “Antonio devo venire a casa tua!, a ringraziarti”, ma mi batte sui tempi: è lui stesso a farsi trovare, l’ultimo giorno di soggiorno ad Haifa, nel negozio di articoli religiosi a Stella Maris, che p. Patrice mi apre gentilmente, caricandomi di rosari, e dove noto una bella statua in legno, un santo con il bambino in braccio, stile sei- settecento, lì per lì penso a sant’ Alberto di Trapani, dopotutto siamo al Carmelo, mi avvicino anche per valutare la qualità, se è un originale o copia moderna? Originale! ma non è sant’Alberto, è sant’Antonio, messo lì, in un angolo, sembra quasi fuori posto, non su una mensola, non in una nicchia, non con la luce a richiamare l’attenzione, ma in un angolo vicino alla finestra, come di chi aspetta, e ogni tanto guarda fuori per vedere se arriva qualcuno, chi arriva, e quando qualcuno arriva, quasi senza farsi notare, ti lascia prima guardare e curiosare all’interno e poi si fa trovare, come a dire: serve qualcosa? La posso aiutare?… a dire: hai visto? Ci sono! “Sono proprio io!” felice di vederti…ma guarda che la mia felicita è gia tutta nel tenere in braccio e godermi questo bambino! Ringrazia lui!
Bambino di Praga
L’occasione di questo incontro mi è favorevole per un ultimo dettaglio: nel diario prima della partenza racconto come per l’apprendimento dell’arabo mi fossi raccomandato al santo di Padova e al suo amico e confratello Luca, raccomandandomi a entrambi; Luca era anche per convincere Antonio suo collaboratore ed amico, insomma una piccola raccomandazione dell’amico, se per caso Antonio fosse stato troppo preso da altro o avesse detto: ma chi è questi?
In questo scenario un po’da “favola” rientrava anche il Bambino di Praga. Quando ne accennavo, la prima volta, già mi sentivo rivolgere una domanda e contestare una cosa: non bastava il Bambino di Praga, da solo? non era forse anche questa una eredità pagana: mescolare Santi e Madonne, Gesù Cristo… Non bastava Gesù Cristo? Non era forse poco rispettoso dire Sant’Antonio e il Bambino di Praga, prima il santo e poi il Signore? Domanda legittima! Rispondo: tutti sanno che Sant’Antonio è sempre rappresentato con il bambino in braccio, come la Madonna, quindi l’accoppiamento santo e bambino, aveva una radice e una legittimazione nella tradizione iconografica, nella devozione e nella liturgia; sant’Antonio è uno dei Santi che ha veicolato nella chiesa il culto dell’umanità di Cristo, dell’infanzia, come pochi, lo ricorda anche Teresa d’Avila….., familiare con quella tradizione in cui era cresciuta, che includeva anche la devozione alla sacra famiglia, a sant’Anna, alla famiglia della Madonna, e che popolava i Carmeli di statue del Bambinello con i più svariati e pittoreschi appellativi e vestitini, e portava fino al bambinello di Praga, con un guardaroba davvero principesco!
Così è frequente trovare Sant’Antonio con il bambino raffigurato nelle antiche chiese Carmelitane anche quelle non appartenenti alla riforma degli scalzi; ricordo bene gli affreschi settecenteschi nella lunette del presbiterio della Chiesa di san Marco, dalle Carmelitane di Enna. Quindi sì: Antonio e il Bambino di Praga stavano bene assieme, ed l’immagine era lì a ricordare due cose: che la Fede, si trasmette anche attraverso le devozioni, e che soprattutto c’è sempre qualcuno che la fede te la trasmette, te la insegna, e questo qualcuno va ricordato perché la Fede non arriva mai da sola, o studiando sui libri da autodidatti, libri che pure hanno un ruolo importante. Quindi, che ci sia un Sant’Antonio con il bambino, aiuta a ricordare che la fede passa di mano in mano, e che i testimoni, i santi, sono essenziali quanto il contenuto della testimonianza. Analogamente potremmo fare questo discorso per Scrittura e Tradizione: cosa sarebbe il Vangelo senza una tradizione di testimoni, di maestri, di educatori? Cosa sarebbe Gesù senza la Chiesa? Mi pare opportuno ricordarlo come pure opportuno tenerci care le nostre devozioni, cari i nostri santi e farceli amici. Vale per quelli sugli altari come per quelli della porta accanto come P.P.
I Santi
se ho trovato la libertà di dire queste cose di cui forse un tempo mi sarei guardato dal fare parola, a che cosa lo devo? Come è accaduto? Uso la parola “libertà”, perché non si tratta solo di raccontare cose personali, di avere pudore, come se ne ha a parlare dei propri sentimenti, ma anche perché si tratta della dignità della personale esperienza di fede, di cui a volte si preferisce non parlare quasi per un senso di inadeguatezza di quella esperienza. Esperienza in cui si intrecciano tanti elementi: nel mio caso anche il lungo soggiorno in Sicilia, terra del mito, dove anche la fede si intreccia con il mito, e forse 25 anni in quei luoghi, mi viene da pensare, avranno lasciato qualche traccia. Non è qui che ho imparato anche dalla fede popolare delle confraternite e delle processioni? Ricordo una giornata memorabile ad Agira in provincia di Enna con la preparazione alla festa dell’Assunta, un impatto che da allora mi ha fatto diventare devoto di questo mistero mariano e capace di capire un po’ di più come si possa trasmettere la fede anche custodendo una tradizione devota e come il popolo sia custode e testimone, protagonista “eroico”, con un suo linguaggio e la sua narrazione, che spesso gli manca e gli viene negata, relegata a fenomeno folkloristico. Me lo chiedevo, incerto se sentirmi gratificato da questo essermi almeno un po’ radicato nella cultura locale, come chi impara il dialetto del posto, o preoccupato dal rischio di corruzione del linguaggio adamantino della teologia e del dogma, che avevo appreso con gli studi teologici. Sull’apporto di papa Francesco all’approfondimento e alla rivalutazione dell’elemento popolare della fede non era la prima volta che mi imbattevo, ma oltre agli elementi che si ritrovano nei documenti magisteriali e negli studi dedicati al tema, questa volta si aggiungeva un elemento più diretto, immediato, personale. Il colpo di grazia lo diedero alcune letture proprio nel periodo di soggiorno ad Haifa, mentre preparavo un incontro per la nascente comunità ocds che si riunisce a Stella Maris, un incontro su santa Teresa del Bambino Gesù. Volevo proporre la lettura della Esortazione apostolica C’est la confiance, di papa Francesco, pubblicata il 15 ottobre 2023. Ritenevo che per comprendere meglio il testo, andasse contestualizzato, inquadrandolo e mettendolo in relazione alla personale devozione di papa Francesco alla Santa di Lisieux. Cosi mi sono trovato a leggere alcune testimonianze che parlano proprio di questo, Teresa e papa Francesco. Anche grazie a questo, che riporterò alla fine di questa nota, ho ritenuto opportuno parlare della mia devozione al Santo di Padova, senza dovermi sentire per questo figlio di un dio minore o temere di alimentare una fede devozionistica. Una domanda però: se la fede trova alimento anche nell’ammirazione e nello stupore che nasce dalla conoscenza delle vite dei santi, da una testimonianza che trasmette fiducia e audacia nel chiedere, noi quei santi li preghiamo? È una domanda che le letture di quei giorni mi suggerivano. Il magistero, quello di un papa, non passa anche attraverso la testimonianza della sua preghiera? Noi quei santi li preghiamo? domanda che mi faccio a volte, specie quando penso a santi per i quali l’interesse per gli aspetti dottrinali ha un peso importante, come potrebbe essere per noi carmelitani con i tre dottori: Teresa, Giovanni e Teresina, la domanda è: ma li preghiamo? O li consultiamo quando ci viene chiesto di tenere una conferenza sulla vita spirituale?
Ecco di seguito un articolo utile : Santa Teresa di Lisieux, una storia d’amore per Dio
Fonte: https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2022-10/santa-teresa-lisieux-devozione-papa-francesco.html
Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano
“Quando viaggio, la porto. E dentro, cosa c’è? C’è il rasoio, c’è il breviario, c’è l’agenda, c’è un libro da leggere – ne ho portato uno su Santa Teresina di cui io sono devoto”. Papa Francesco ha pronunciato queste parole riferendosi alla propria borsa nera e rispondendo, nel 2013, ad una domanda durante la conferenza stampa nel volo di ritorno da Rio de Janeiro. La predilezione per la giovanissima Santa Carmelitana accompagna anche altri momenti del Pontificato. Durate una intervista, la giornalista della rivista Paris Match porge questa domanda al Papa: “Perché lei, che è argentino, ha una tale devozione verso una delle nostre sante più popolari, Teresa di Lisieux?”. Papa Francesco risponde: “È una delle sante che più ci parla della grazia di Dio e di come Dio si prenda cura di noi, ci prenda per mano e ci permetta di scalare agilmente la montagna della vita se solo ci abbandoniamo totalmente a lui, ci lasciamo ‘trasportare’ da lui”. La piccola Teresa aveva compreso, nella sua vita, che è l’amore, l’amore riconciliatore di Gesù, a muovere le membra della sua Chiesa. Questo mi insegna Teresa di Lisieux. (…) A lei, che si è lasciata semplicemente sostenere e trasportare dalla mano del Signore, chiedo spesso di prendere nelle sue mani un problema che ho di fronte, una questione che non so come andrà a finire, un viaggio che devo affrontare. E le chiedo, se accetta di custodirlo e di farsene carico, di inviarmi come segno una rosa. Molte volte mi capita poi di riceverne una”…
Nella vita di Papa Francesco la devozione per Teresa di Lisieux è una costante. Quando è arcivescovo di Buenos Aires, l’allora cardinale Bergoglio si reca a Roma per impegni legati al suo ministero. Ed è solito fermarsi per pregare nella piccola Chiesa di “Santa Maria Annunziata in Borgo”, a pochi passi dalla Basilica di San Pietro. I frati francescani dell’Immacolata, che hanno la custodia della Chiesa, cominciano a notare la presenza di questo sacerdote. Puntualmente, alle nove del mattino, si ferma a pregare con grande raccoglimento e devozione davanti alla statua di Santa Teresa di Gesù Bambino. Un giorno il frate addetto alla Sacrestia si avvicina per chiedere al devoto pellegrino chi fosse. La risposta è immediata: “Sono il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires”.